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La visita di Pelosi a Taiwan sfida Pechino nel momento peggiore: rischio o opportunità per Washington?

Di Enrico Bruni.

“Washington ama così tanto la Cina che ne vorrebbe due”. Questo è il pensiero che in questi giorni indigna milioni di cinesi che sui social stanno protestando di fronte alla tappa taiwanese del viaggio della Speaker della Camera Nancy Pelosi al grido di “c’è una sola Cina“. Il suo arrivo sull’isola ha generato una pesante risposta da parte di Pechino che ha imposto nuovi blocchi commerciali e massicce esercitazioni militari lungo sei punti strategici attorno alla costa taiwanese.

Pelosi fa capolino all’interno del complesso teatro taiwanese in un momento critico per Pechino: da un punto di vista interno, infatti, il Partito deve fare i conti con una crisi economica globale aggravata dalle pesanti conseguenze della Zero Covid Policy, mentre su un piano internazionale sconta una posizione non particolarmente favorevole assunta a seguito dell’invasione russa in Ucraina. Se a questo quadro, di per sé già complicato, aggiungiamo il fondamentale appuntamento del XX congresso del Partito Comunista Cinese che deciderà rispetto alla rielezione di Xi Jinping per il suo terzo mandato, capiamo che la visita della terza carica di Washington pone una sfida esistenziale non soltanto per la reputazione internazionale della Repubblica Popolare, ma soprattutto per la credibilità dell’attuale Presidente che ha fatto della riunificazione di Taipei uno dei punti fondamentali del suo progetto per una “nuova Cina”.

Probabilmente la visita di Nancy Pelosi non provocherà lo scoppio di una terza guerra mondiale come in molti temono.

Nancy Pelosi
Nancy Pelosi

Le perplessità avanzate dalla Casa Bianca e lo scetticismo delle forze militari delineano uno schema complesso che vede i vertici dell’amministrazione statunitense contraddirsi vicendevolmente nelle intenzioni, lasciando sfumata la direzione verso cui vorrebbero condurre il destino della regione del Mar Cinese Meridionale. Se ormai Pechino tollera a fatica la cosiddetta ambiguità strategica statunitense rispetto ai rapporti con Taipei, la visita della Speaker della Camera evidenzia tutti i limiti del posizionamento di Washington nelle dinamiche dello Stretto e c’è chi parla di un’aperta violazione del Comunicato di Shanghai. Durante il viaggio del Presidente Richard Nixon a Pechino nel 1972, infatti, Stati Uniti e Cina siglarono un documento in cui gli USA segnavano la fine della teoria delle “due Cine”, impegnandosi per il ritiro dei propri contingenti militari dall’isola di Taiwan e dalle sue acque; dall’altra parte Pechino si impegnava al riconoscimento della supremazia navale di Washington nel Pacifico, garanzia contro la minaccia sovietica. Riallacciando in questo modo i rapporti diplomatici e commerciali con la Cina continentale, gli States declassavano Taipei al rango di “parte della Cina”, auspicando una soluzione pacifica della questione. A distanza di cinquant’anni dal viaggio di Nixon, la visita di Pelosi sull’isola “ribelle” certifica che lo “spirito di Shanghai” parla di una Cina e di un’America ben diverse, relegando il valore di quell’atto e di quei giorni a una felice parentesi antisovietica ormai alle spalle.

Pechino, oggi, ribadisce di fronte ad ogni azione americana il significato di quelle parole, evidenziando una non derogabilità rispetto allo spirito del 1972 per il mantenimento dei rapporti tra i due paesi e invita i propri partner a non intromettersi nel destino unico che unisce le due coste dello Stretto. Era stato lo stesso Presidente Xi Jinping a ribadirlo durante il suo discorso per le grandi cerimonie del centesimo anniversario della nascita del PCC:

“Arrivare alla completa riunificazione della Nazione è l’obbiettivo principale del Partito […] nessuno dovrebbe sottovalutare la risoluzione, il desiderio e la capacità del popolo cinese di difendere la propria sovranità nazionale e integrità territoriale”.

Le esercitazioni militari sono la dimostrazione di quella risolutezza che i nazionalisti cinesi si aspettavano: nei giorni precedenti al viaggio, si moltiplicavano le voci sui social e sui giornali del paese che arrivavano addirittura a auspicare l’abbattimento in volo dell’aereo della Speaker della Camera, mentre su Sina Weibo (una sorta di “Twitter con caratteristiche cinesi”) i netizen cinesi condividevano in massa l’hashtag “there is only one China”, accompagnandolo con messaggi di protesta contro la classe dirigente statunitense. La questione della riunificazione nazionale sta particolarmente a cuore all’opinione pubblica cinese e il governo non è intenzionato a deludere le aspettative dei propri cittadini.

Assieme alle imponenti esercitazioni militari, che ancora non sappiamo fino a che punto si spingeranno, a Wenzhou la polizia locale ha arrestato un attivista pro-Taiwan, Yang Chih-yuan, con il pretesto di “aver complottato per l’indipendenza dell’isola e per la sua reintroduzione all’interno delle Nazioni Unite”. L’arresto dell’attivista, come sottolinea il sinologo Lorenzo Lamperti su China Files, sembra essere la risposta diretta all’incontro avvenuto durante il viaggio a Taipei tra Pelosi e l’ex leader delle proteste di Piazza Tiananmen, Wu’er Kaixi, ma potrebbe costituire il segnale di un irrigidimento delle normative della Repubblica Popolare nei rapporti con Taiwan e, soprattutto, con i cittadini taiwanesi presenti sul territorio continentale.

La visita di Pelosi rischia così di incrementare ancora di più il forte nazionalismo degli han, convincendoli della necessità di rafforzare i legami tra potere centrale ed esercito per garantire una stabilità interna ed esterna capace di rispondere tempestivamente alle presunte provocazioni provenienti dall’esterno, in primis dagli Stati Uniti.

Nell’establishment cinese è maturata la convinzione che lo status quo sia definitivamente perduto e che l’accelerazione del processo di riunificazione con Taipei sia ormai l’unica strada possibile per scongiurare l’ingerenza statunitense nei destini della regione.

I Taiwanesi, dal canto loro, guardano l’Esercito Popolare di Liberazione circondare le proprie coste e i missili sorvolare il proprio territorio nell’attesa di decidere quale risposta – diplomatica, economica o militare – sia la più consona agli interessi della propria isola. Non tutti a Taiwan hanno salutato favorevolmente l’arrivo dell’aereo militare che trasportava Nancy Pelosi, e in molti si sono chiesti quale fosse l’opportunità di questo viaggio, consapevoli di quale sarebbe stata la risposta di Pechino. Per Taipei la visita della Speaker della Camera resta tuttavia coerente con le aspirazioni indipendentiste della classe dirigente, come coerenti sembrano le risposte economiche e militari della Repubblica Popolare. La visita di Pelosi apre quindi per il governo di Taipei nuove prospettive e nuove opportunità, ben più significative di quei rischi che la risposta militare dell’Esercito di Liberazione rappresentano nei rapporti tra le due coste dello Stretto.

Nancy Pelosi Taiwan

Per il terzo attore, forse quello decisivo, gli Stati Uniti, invece, gli esiti di questa nuova escalation restano del tutto incerti: la confusione strategica di Washington non giova alla credibilità internazionale della Casa Bianca, che vede annullare il successo guadagnato con l’eliminazione del leader di Al Qaeda, Ayman al-Zawahiri, e si vede proiettare nuovamente su uno scenario internazionale dagli esiti rischiosi. L’avventura taiwanese di Pelosi getta ombra sulla leadership del Presidente Joe Biden, visto come colui che non è riuscito a controllare forse l’esponente più rilevante del suo partito e ha per questo messo a rischio gli interessi della Casa Bianca. Dall’altra parte l’avvicendamento con le elezioni di midterm e il conseguente rischio di un cambio di maggioranza all’interno del Parlamento, obbliga il Presidente a mostrarsi nella maniera più risoluta possibile intransigente di fronte a qualsiasi forzatura da parte del suo omonimo cinese. Il viaggio di Pelosi ha infatti messo d’accordo Democratici e Neoconservatori Repubblicani rispetto alla volontà di mettere in difficoltà Pechino sui temi caldi del dossier Cina, quindi Taiwan, Xinjiang e diritto internazionale. Per Washington si apre oggi una pagina inedita per la competizione internazionale nel Pacifico, con una Cina sempre più aggressiva e intransigente intenta a intimidire le democrazie per dissuaderle rispetto al sostegno a Taipei.

Questo nuovo tipo di competizione, che da politico-diplomatica rischia di sfociare in militare e nucleare, potrebbe porre gli Stati Uniti di fronte al bivio di scegliere tra una delle due Cine, ancora una volta dopo cinquant’anni dal viaggio di Nixon a Shanghai. La scelta di sfidare apertamente Pechino potrebbe rappresentare il punto di svolta irreversibile all’interno del sistema internazionale del post-Guerra Fredda e, con questa premessa, l’improvvisazione di una risposta a seguito del viaggio di Pelosi potrebbe rappresentare la mossa meno conveniente da parte statunitense. Così, se da una parte Washington non può tirarsi indietro rispetto agli impegni presi con Taipei, la possibilità di entrare in una fase di aperta conflittualità con Pechino non giova né agli Stati Uniti né a Taiwan, né tantomeno alla Cina stessa. La reazione cinese a quanto avvenuto questa settimana non potrà essere decodificata se non col tempo. A tenere Taipei lontana da Pechino resta una data che sembra suonare sempre più come “ora X”: 2049, centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese e data del completamente del processo unitario cinese sotto la guida del PCC. Con la guerra ancora in pieno fermento in Ucraina, l’apertura di questa nuova crisi nel Mar Cinese Meridionale non era ciò che la Casa Bianca si auspicava, ma starà a Washington fare chiarezza su quali sono i suoi reali obbiettivi per questa parte di mondo.

Bibliografia di riferimento:

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