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La prima volta è stata a 14 anni, un sabato sera.

Di Francesco Codagnone.

La mia prima volta è stata a 14 anni, un sabato sera.

Ero uscito con le mie amiche, la prima uscita da soli, senza genitori. Per l’occasione avevo le All Stars nuove.

Un ragazzo più grande di me iniziò a seguirmi per strada e mi urlò “ricchione”.

Questa è stata la prima volta. Lo ricordo ancora. Decine di persone – miei coetanei, compagni di scuola, amici e amiche, adulti, anziani – rimasero in silenzio. Come puoi reagire? Io mi sentii sprofondare: umiliato, sbagliato, difettoso. Solo.

Cercai di scomparire, ma anche scomparire era impossibile.

Questa è stata la prima volta.

Non sarei più uscito di casa, il sabato sera, per anni. E se accadesse di nuovo? E se mi seguissero ancora per urlarmi quelle cose? E se avessero ragione? E se scoprissero la verità, chi sono in realtà? E se passassero dalle parole ai fatti?

Alle medie, poi al liceo, io ero il ricchione, lo ero per i miei compagni di classe ma anche per i ragazzi che non conoscevo, lo ero per alcune ragazze, ma soprattutto per gli altri maschi: “a ricchiò”. Una vita intera riassunta in una parola, tra minaccia e premonizione.

Sono stato ricchione ancor prima di saperlo, ancor prima di innamorarmi per la prima volta, di fare coming out, di dirlo ai miei amici, a mia madre. Ancor prima di ammetterlo a me stesso, io ero un ricchione, e questo andava scritto, ripetuto, urlato – soprattutto sussurrato. E anche quando sussurrate quelle parole mi paralizzavano, sudore freddo, cuore a rallentatore.

Loro hanno ragione, sono davvero ricchione, sono difettoso, da scartare. Non merito altro, sicuramente non merito più di questo. Perché non sono nato come loro? Perché è capitato a me?

Non riuscivo a dormire eppure avrei voluto non svegliarmi mai. Prendevo e perdevo peso. Studiavo ore al giorno, ossessivamente. Non sorridevo. Non uscivo. Non mi divertivo. Non piangevo. Non mi innamoravo. Non mi arrabbiavo. Non, non, non.

Un’adolescenza di privazioni.

Ho impiegato dieci anni a cambiare la direzione dei miei sentimenti: ad uscire la sera, mangiare, dormire, divertirmi. Vivere serenamente la mia vita, essere chi sono, amare e permettere agli altri di amarmi, tenere per mano l’uomo che amo. Oggi, a 26 anni, sono libero.

Mi chiedo quale sarebbe stato il mio percorso se avessi incontrato persone più sensibili: sarei stato più felice, avrei vissuto quelle esperienze dell’adolescenza che mi sono negato, non avrei perso e ripreso così tanti chili così tante volte, avrei più foto in cui sorrido.

Ciò di cui vado fiero è che mai, nonostante le offese e le cattiverie subite, mai sono sceso a compromessi con me stesso, mai ho fatto intenzionalmente del male a qualcuno, mai ho smesso di essere la persona buona e sensibile che sono.

Non ho permesso al dolore di cambiarmi. Sono stato ferito, mi sono sentito triste, perso, tanto solo, ma mai cattivo, neanche nei momenti più difficili ho pensato di rispondere al male con il male. L’omofobia mi ha sottratto anni di potenziale felicità e spensieratezza, ma non mi ha sottratto la mia integrità.

lo sono stato fortunato, perché a discapito di un mondo spaventoso ho avuto delle persone al mio fianco pronte a sollevarmi qualora fossi scivolato. Sono stato amato anche se non lo sapevo, anche se pensavo nessuno avrebbe mai potuto amarmi.

Tanti altri ragazzi e tante altre ragazze ogni giorno vivono quello che ho vissuto io, senza però la fortuna di avere al loro fianco persone meravigliose pronte ad ascoltarle e sostenerle. Senza un dialogo, un confronto, una carezza. Nel vento senza un orizzonte.

Vi chiedo: siate gentili. Date importanza a come si sente l’altra. Guardiamoci, tocchiamoci: esistiamo, in questo momento, e siamo insieme. Parliamoci. Chiediamoci come stiamo. Scambiamoci un’opinione. Parliamo di qualcosa.

Parliamo di questa cosa.

Francesco Codagnone

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