Da videogaymers a generazioni, raccontare l’universo lgbtqia+.
Luca De Santis è uno storyteller. Una capacità che tutti vorrebbero, ma che in pochi padroneggiano davvero bene; Luca non solo è un narratore capace di essere “crossmediale”, Luca ha il talento di acchiappare le storie e farle diventare racconto.
Scrittore, sceneggiatore, saggista, abbiamo chiacchierato con lui cercando di capire come si fa a raccontare una comunità, perché è necessario farlo e come le storie siano mezzi potenti per creare identità. Siamo immersi nelle storie e i media sono diversi e complessi: vanno dall’entertainment al gaming e abbracciano generazioni differenti. Luca ha una visione e una duttilità intellettuale che ci ha permesso di esplorare realtà multimediali differenti a partire da suo “core”: il GAMING.
Raccontare e farlo bene, con uno scopo, una missione trasformativa positiva è senza dubbio un superpotere da Rebel. Luca è un Rebel.
Q. Luca, nel 2013 esce Videogaymers, omosessualità nei videogiochi tra rappresentazione e simulazione. Per la serie “representation matters” anche tra simboli e simulacri del gaming. Ce ne vuoi parlare?
Videogaymes nasce in anni interessanti, è stato il primo saggio dedicato alla rappresentazione della comunità LGBT+ nel gaming, non c’era nulla che trattasse l’argomento e quindi mi sono messo all’opera. C’è da fare una premessa: la comunità ha cominciato a raccontarsi e non farsi raccontare solo negli ultimi 20 anni, c’era stata una sorta di riappropriazione della narrazione. Lo studio di questa narrazione e la sua analisi morfologica è un argomento ampiamente trattato per gli altri media, ma nel gaming questo aspetto non esisteva. Ho studiato le produzioni che andavano dagli anni 70 al 2009, l’evoluzione nell’industria del gaming è stata brutale e proprio a ridosso del 2006 son nate le grandi produzioni che hanno contribuito a modificare completamente il mercato. Questo lavoro di ricerca del linguaggio non è stato un viaggio in solitaria, Geek Queer nasce con l’intento di farmi aiutare nella ricerca, per cui è stato un lavoro di condivisione, di intelligenza collettiva.
Q. I giochi, così come le storie sono simulazioni della vita reale. Ci immergiamo nelle storie e apprendiamo dalle storie. Nel XXI secolo il pubblico delle storie vuole ritagliarsi un ruolo. Quanto il pubblico ha contribuito al cambio di narrazione della comunità LGBT+?
Dall’essere raccontati al raccontarsi è stato un bel salto. I personaggi omosessuali nei gaming sono sempre esistiti e rappresentavano sostanzialmente i pregiudizi di ogni epoca. Lo sviluppo della narrazione va di pari passo anche allo sviluppo stesso del mercato del gaming, alla sua evoluzione.
Negli anni ’80 erano un prodotto dedicato esclusivamente ai maschi.
Poi è arrivata PlayStation e un nuovo modo di intendere il gaming, perché entrava un device di gioco in casa, un elettrodomestico. Ma la Rivoluzione con la R maiuscola l’ha fatta Nintendo.
Nintendo ha allargato i confini del mercato aprendosi a target totalmente differenti, ha incluso nel suo universo generi, età e bisogni differenti per cui, quando si allargano le possibilità, si aprono opportunità e spostano confini. Quando si passa da una nicchia al mainstream hai ovviamente bisogno di più persone che lavorino ai progetti ed è in questo momento che il gaming si apre non solo alla comunità LGBT+, ma anche alle donne, per esempio.
Quindi un primo punto di svolta può essere proprio nel bisogno dell’industria di sostenere la crescita. Più persone, più punti di vista, più diversity, sul “quanto” diversity ci torneremo.
Un altro punto è l’evoluzione stessa della società. Il gaming, così come tutto l’entertainment, rappresenta simboli, simulacri e stereotipi della società di ogni tempo. Se negli anni ’80 il cinema proponeva modelli alla YMCA così faceva il gaming (Vendetta e Street of Rage).
E poi c’è una caratteristica che ha solo il gaming e che va oltre ogni tipo di identità rappresentata o meno. Il gaming destruttura l’identità fisica perché consente la creazione di una identità totalmente virtuale.
Puoi essere chi vuoi e il gioco non è solo un simulacro, ma uno strumento di immedesimazione potente che permette anche l’azione. In questo contesto i messaggi acquistano potenza.
Oggi abbiamo la possibilità di trasformarci in qualsiasi personaggio.
Q: Raccontare la comunità LGBT+ è la tua missione. Il tuo lavoro è Story Driven. In Italia abbiamo visto che la strada verso i diritti (basici) è ancora lunga per la comunità LGBT+.A proposito di storie, perché la narrazione della comunità a livello mainstream sembra ferma al palo? Perché questo continua ad accadere?
Il perché ha un retaggio storico importante.
In Italia non abbiamo mai avuto delle leggi repressive contro la comunità LGBT+.
Nell’Italia ottocentesca non esistevano leggi contro la “sodomia” come in Inghilterra e un esempio di questo è Oscar Wilde che, una volta uscito di prigione, decise di passare del tempo in Italia e non solo per la bellezza dei luoghi, ma per il fatto che era un posto relativamente tranquillo per gli omosessuali.
Più avanti, durante la WW2 se la Germania nazista ampliò il Paragrafo 175 condannando ancora di più l’omosessualità e portando migliaia di persone nei campi di concentramento, l’Italia fascista non prese decisioni in questo senso perché, a dire di Mussolini: “In Italia son tutti maschi”. Nel codice Rocco l’omosessualità non era punita poiché semplicemente la si negava totalmente, non esisteva, veniva messa in atto una “tolleranza repressiva”. Il massimo che accadde fu il confino, decisione che spettava ai prefetti per giunta.
In sostanza, in Italia gli omosessuali non sono mai esistiti. Si è rimosso il problema, si son rimosse le persone.
Per questo negli anni ’60 del secolo scorso il primo passo da fare è stato quello di dire “CI SIAMO”, esistiamo. È stata una questione esistenziale, in primis.
A causa di queste storie di reticenza e rimozione, non è un caso che le destre siano più propense a negare l’esistenza di un bisogno. Negare l’esistenza di un bisogno, deresponsabilizza da prendere decisioni per soddisfare quel bisogno. Se si fa scomparire il problema, si fa scomparire anche la necessità di dar voce a un problema: scompare la presenza, scompare la rivendicazione.
Il fatto che si narri che “l’Italia non ha bisogno del DDL Zan” è il risultato di questo atteggiamento storico.
Q: In un’intervista dichiari: “la vera rivoluzione sarebbe iniziare un percorso di autodeterminazione a prescindere dall’appartenenza alla comunità LGBT+”. Ti va di approfondire?
Nella comunità, il concetto di autodeterminazione deve essere affrontato per forza perché esiste un disallineamento tra realtà e il proprio sé.
Ma il fatto di mettere in discussione il proprio ruolo e la propria identità è un qualcosa che dovrebbe coinvolgere tutti e forse le donne in questo processo sono maggiormente avvantaggiate perché anche loro sono messe in discussione dagli stereotipi.
Però mi rifiuto di credere che non sia un atto necessario anche per gli uomini, come mi rifiuto di credere che 7 miliardi di persone che vivono sulla Terra debbano per forza rappresentare una manciata di stereotipi.
Questa consapevolezza nasce dal continuo confronto con mio fratello che in modo o nell’altro si mette in discussione, mette in discussione il suo ruolo, i suoi privilegi.
L’identità di genere è -anche- una questione legata all’educazione e che talvolta si ha paura a raggiungere.
Q: Entertainment e rappresentazione. In Umbrella Academy Elliot Page interpreta Victor. Lightyear bannato in 13 paesi. In Stranger Things Will fa un monologo sulla diversity. A che punto siamo?
Per quanto queste produzioni siano importanti e popolari, la questione è che la rappresentazione della comunità LGBT+ secondo il report GLAAD 21-22 è del 9%.
La questione della rappresentazione non è un problema solo della comunità LGBT+, ma anche delle minoranze, delle donne, delle persone con disabilità, etc…
C’è sempre da considerare il punto di vista su queste questioni. Per il mainstream possono essere grandi conquiste, ma io guardo al 90% che ancora manca. La rappresentazione femminile è al 47%, per esempio.
Certo l’evoluzione c’è ed esiste, nel gaming lo abbiamo visto con The Last Of Us, una produzione che è stata celebrata e premiata.
E non posso non citare i fumetti Marvel i quali, in modo più evidente che nei film, hanno dato spazio alla comunità LGBT+, nel corso degli anni, soprattutto gli X-men. (a tal proposito abbiamo trovato questo articolo molto interessante ndr > clicca QUI).
Per Umbrella Academy è piaciuto vedere come il personaggio di Elliot Page non sia stato snaturato. Avrebbero potuto fare di tutto, hanno scelto di rappresentare la transizione. (Di Umbrella Academy abbiamo parlato anche con Elena e Francesco Qua).
Q: GENERAZIONI. Il tuo Podcast su Storytel si chiama Generazioni. Quando raccontiamo delle storie rafforziamo anche i nostri legami con le altre persone, con le generazioni. Come te lo immagini il futuro, Luca?
Il futuro me lo immagino bello.
Il Podcast (ascoltalo qui) mi ha dato l’opportunità di riflettere. Il racconto ha una responsabilità perché ci permette di capire come siamo arrivati ad un determinato punto. E questo va raccontato.
Tra le generazioni c’è un distacco mediatico: esiste una parte reale e una virtuale e adesso è tutto molto virtuale per cui far parte di una comunità come lo impari?
Una volta, come è capitato a me, bastava entrare in un circolo, al Cassero di Bologna ci ho trovato una moltitudine di umanità che ha contribuito alla mia formazione. Ma queste storie come le racconti adesso? Perché è necessario farlo, è necessario trasmettere la storia che abbiamo vissuto perché dobbiamo essere consapevoli di come riamo riusciti ad arrivare fino a qua per poi chiederci cosa sta succedendo e cosa succederà. Quali sono i legami che ci uniscono?
In Generazioni racconto le storie e i legami. È un racconto senza pregiudizi dove più voci si danno il testimone e percorrono le loro esperienze che sono diventate parte della mia e che con questo podcast trasmetto ad altre generazioni, generazioni che non sono escluse dalla trama, ne sono parte integrante e hanno voce.
NEWSLETTER
YouSo Talk:
non una semplice newsletter.
Con YouSo Talk proporremo in anteprima le interviste (video e non), i racconti, le esperienze dei Rebels e di YouSo, ma anche long form e contenuti extra. Se pensi anche tu che ogni tanto sia importante prendersi dieci minuti per rimanere in ascolto, prendi il tuo biglietto per gli YouSo Talk, ti basta solo compilare il form.