Una chiacchierata con Giulia Crivellini, Libera di Abortire.
Di Francesco Codagnone
L’aborto è il più fragile dei diritti. E lo è sempre stato. E non per ragioni scientifiche, etiche o morali. L’aborto, l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è il più fragile dei diritti perché non è un diritto di tutte le donne e perché la sua idea ci sembra ogni giorno meno legittima.
«A più di 40 anni dall’entrata in vigore della legge 194 che ha decriminalizzato e regolamentato il diritto all’aborto, non siamo ancora nella condizione di decidere autonomamente e accedere liberamente all’interruzione volontaria di gravidanza. Il diritto all’aborto è minacciato da un numero altissimo di obiettori di coscienza, da informazioni antiscientifiche, dalle violenze fisiche e psicologiche e dalle associazioni no-choice, appoggiate da giunte regionali retrograde di estrema destra. Un percorso ad ostacoli che vede le donne sempre più sole. Oggi, il diritto all’aborto è sempre più fragile, sempre meno legittimo».
Libera di Abortire
Giulia Crivellini è avvocata e tesoriera di Radicali Italiani. Da anni si occupa di diritti civili e sociali, come IVG, l’istituzione della Banca dati per i Testamenti biologici, fine vita, legalizzazione della cannabis, tutela delle e dei sex workers, diritti LGBTQAI+. Nel maggio del 2021 nasce la campagna “Libera di Abortire”, un’iniziativa promossa da Radicali italiani, IVG ho abortito e sto benissimo, Non è un veleno e UAAR, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, i Giovani Democratici Abruzzo e Milano, Si Può Fare, TAKE… ACTION! e aperta a tutte le associazioni e alle persone convinte che non possano esistere intere strutture dove non si pratica l’aborto o che siano tollerate violenze psicofisiche senza che nessuno sia mai ritenuto responsabile.

“Libera di Abortire” nasce da un incontro. Quello di Giulia con Francesca Tolino. Il suo nome probabilmente è familiare. Nel settembre 2019, Francesca è al sesto mese della sua seconda gravidanza, quando una mattina si sottopone all’esame morfologico. L’ecografia morfologica serve per accertare l’esistenza di eventuali malformazioni, ma quasi sempre di fronte allo schermo che proietta l’immagine del feto ci si concentra sui tratti, si ricercano i lineamenti di quella che sarà tua figlia. Non quella mattina, quella mattina c’è qualcosa che non va: il feto è malformato, ha un ventricolo solo e l’aorta schiacciata. Potrebbe nascere con un’operazione complessa, essere intubata, al sesto mese sottoposta ad una nuova operazione, per un’aspettativa di vita massimo di tre anni. Francesca si rifiuta, non avrebbe messo al mondo una bambina così malata. Decide di ricorrere all’aborto terapeutico. C’è una legge, c’è il diritto: sarà doloroso, ma sarà veloce. Non va così. Per Francesca è un percorso ad ostacoli, in cui le informazioni e l’aiuto ricevuto sono pari a zero: dalla difficoltà nel trovare, seppur in una città grande come Roma, un medico non obiettore di coscienza, ad una serie infinita di colloqui, spesso dolorosi e invadenti dal punto di vista psicologico. E poi, mesi dopo quell’odissea, dopo aver portato a termine la procedura, casualmente, la scoperta: una croce con il suo nome, nel cimitero Flaminio. Lì è sepolto, non si sa da chi, non si sa perché, il feto della sua bambina non nata. Il «cimitero dei feti». Come la sua, tante altre croci, tanti altri nomi di donne, lettere scarlatte. Nessuna aveva idea di cosa fosse accaduto. Per questo Francesca ha deciso di fare qualcosa, di parlare a nome di tutte quelle donne che avevano visto un diritto trasformato in tortura, in punizione.
La sua storia fece scalpore, ma è in realtà un riflesso. È tutto il percorso che va rivisto.
«Questo accadeva quasi due anni fa, in un certo senso anticipando la campagna elettorale a cui abbiamo assistito negli scorsi mesi, e il dibattito che ne è conseguito. E se la storia di Francesca fece scalpore, molte altre sono e continuano a passare sotto il silenzio. A distanza di 44 anni di approvazione della 194, il diritto di aborto non è ancora un diritto garantito a tutte le donne – a tutte le persone con utero».
L’aborto non è coscienza
L’aborto è un diritto fragile perché legato alla coscienza – della società, del medico, del personale sanitario, poiché la persona che decide di abortire la coscienza non ce l’ha più. In Italia sono 31 le strutture sanitarie con il 100% di obiettori di coscienza tra medici ginecologi, anestesisti, infermieri o OSS, mentre la media nazionale è di oltre il 70%. Tra i medici anestesisti, poi, la percentuale è del 66%: questo significa che, nella maggior parte dei casi, se abortirai, abortirai nel dolore. E se dunque l’esercizio del diritto è subordinato all’interpretazione personale, alla coscienza appunto, smettiamo di parlare di un diritto.
«Il fatto di avere una legge che compie 44 anni è impensabile: le leggi devono respirare la vita della società, devono crescere e cambiare insieme alle persone. Il mondo cambia, la società si evolve, la scienza progredisce, e il diritto deve procedere di pari passo, adattandosi ai tempi. Specie se parliamo di leggi che hanno un impatto così diretto e intimo nella vita delle persone. In questo senso, l’obiezione di coscienza, una delle grandi aree grigie della 194, non è più attuale».
L’aborto non è uguale per tutte
La 194 è, dunque, una legge problematica. Non più attuale. Non si va mai oltre lo status quo, non si ascoltano le esigenze delle donne, non si tiene conto della differenza tra territori, classi sociali, situazioni economiche. Spesso ad essere impreparato è proprio chi dovrebbe assicurare l’esercizio del diritto.
«L’informazione rispetto a tutte le procedure relative all’IVG è spesso carente, non solo tra le donne che vorrebbero accedere all’IVG, ma anche tra i medici e all’interno dello stesso personale ospedaliero o sanitario, che spesso non è aggiornato rispetto agli sviluppi della medicina in merito a salute sessuale del corpo femminile. Come spesso accade nel caso di scarsa informazione, a pagarne le conseguenze sono soprattutto le persone già svantaggiate: nella difficoltà, le differenze sono amplificate. Poca, o inesistente, la documentazione rispetto alle ragazze minorenni, ad esempio, o alle persone transgender. Il personale medico è spesso impreparato sulla questione, complice un sistema universitario che non include le tematiche trans e intersex nei programmi di studio. I moduli per IVG, poi, sono sempre redatti al femminile, con la conseguente invisibilizzazione delle persone trans. L’aborto si presta dunque alle discriminazioni: ha un’accessibilità diversa in base alla regione, alla disponibilità economica, all’estrazione sociale, all’istruzione».
L’aborto è vergogna, stigma sociale, parola fastidiosa, tabù.
La cattiva, o mancata, informazione, che è poi l’anticamera dell’obiezione di coscienza, è il corollario di una narrazione univoca dell’aborto. Un punto, o punto e virgola. Il fatto è che l’aborto è una vergogna, uno stigma sociale, la parola stessa è fastidiosa.
«Sebbene sancito dalla legge, l’aborto non ha mai smesso di essere argomento tabù, delicato, e intimo e, soprattutto, scomodo. Abbiamo paura di parlarne, di prendere una posizione, perché controversa. È un rimosso obbligatorio non solo per le donne che lo affrontano da sole ma anche per le coppie stabili. È argomento d’imbarazzo perfino per quei medici che dovrebbero non avere imbarazzo alcuno».
L’aborto è colpa, errore, una sconfitta per la donna, lo accettiamo se è doloroso
Non ne parliamo perché non ne vogliamo parlare. O meglio: ne parliamo solo per incasellarlo, giusto o sbagliato. L’aborto, che è una cosa brutta, seria, serissima, va discusso da tutti (ma proprio tutti) ed eventualmente accettato: “Alla cortese attenzione della politica, dei medici, degli infermieri, degli anestesisti, ma anche della mia famiglia, dei miei amici, dei miei vicini di casa, delle persone che non conosco, delle persone che seduti sul gabinetto scrivono su Twitter che sono un’assassina: ho forse il permesso di abortire?” E proprio per questo, sebbene sia (o dovrebbe essere) garantito dalla legge, sentiamo sempre il bisogno di motivarlo, giustificarlo in qualche modo – lo tolleriamo di più se reso necessario da un contesto tragico, da episodi di violenza o da ragioni mediche. Come dire: se soffri va un po’ meglio, te lo concedo più volentieri. Se la donna è rimasta incinta dopo uno stupro, lo accettiamo, poveretta. Se il feto ha una malformazione, lo accettiamo ma un po’ meno, proviamo a capirla, ma sotto sotto pensiamo che è egoista. In tutti gli altri casi l’aborto è indecenza. Se è minorenne, allora è stata un’incosciente, ma non li aveva dei genitori? Se ha difficoltà economiche, doveva pensarci due volte prima di scopare. Se è single e non vuole crescere un figlio da sola, allora poteva evitare di fare la puttana. L’aborto è, dunque, sopra ogni cosa e quasi sempre, colpa, errore, una sconfitta per la donna che prima di tutto è corpo (e il corpo delle donne è a nostro uso e consumo). Donna inadempiente al suo ruolo, madre mancata e, di conseguenza, donna sbagliata. Forse per questo accettiamo che non debba mai essere del tutto indolore – non psicologicamente, almeno. Ogni forma di ripensamento può essere indotta, anche quando sconfina nell’aggressione mentale: “perché lo fai”, “sei sicura”, “sei ancora in tempo per cambiare idea”, “pensa a come sarebbe se…”
«Oggi si parla di nuovo diritto, quello delle donne di non abortire. Questo perché l’aborto è sempre visto come una cosa dolorosa e difficile. Spesso è così, ma non per tutte. Alcune donne lo vivono con difficoltà, ma solo perché ostacolate dal sistema, che le mette davanti ad un percorso molto stressante. Ci sono poi donne che lo vivono in completa serenità, del resto è una libera scelta che passa per l’esercizio di un diritto. Ed è soprattutto lì che si opera col senso di colpa: se non hanno alcune rimorso sono considerate insensibili o superficiali. La libera scelta non è sufficiente. Insomma: in un modo o nell’altro, la donna che vuole abortire deve soffrire».
L’aborto è politica, opinione di tutti
Vuoi o non vuoi, tutti abbiamo un’opinione sull’aborto. Anche nei casi in cui non ci riguarda. Questa, però, non è prerogativa dell’aborto, bensì tallone d’Achille dei diritti civili – “per me, possono sposarsi, ma adottare no, i bambini hanno bisogno della mamma e del papà”, “per me, va bene accoglierli, ma solo quelli che sono davvero in difficoltà”, “per me, se soffre e vuole morire, va bene. Ma solo se è molto malato” (ma tu guarda). Eccetera, eccetera, eccetera. Per me, per me, per me. A te nessuno l’ha chiesto, eppure un’opinione ce l’hai. E di questo la politica è ben consapevole: la campagna elettorale si combatte sui diritti e si consuma sulla pelle degli indifesi. E l’aborto, forse più di tutti, cattura l’attenzione, unisce o spacca le piazze.
«Durante l’ultima campagna elettorale è stato più volte ribadito dai partiti di estrema destra che non avrebbero toccato o modificato la 194. Ciò non significa che non proveranno ad aggirarla e svuotarla, rendendone pressoché impossibile l’applicazione, come già accade in regioni dove la destra è al governo da anni. È l’esempio di Marche e Abruzzo, dove sono stati presi provvedimenti in rottura con quelle che sono le linee guida sull’aborto farmacologico. È l’esempio del Piemonte, dove sono stati recentemente erogati 460mila euro per associazioni pro-vita ultracattoliche a tutela della maternità. Se la politica non vuole far abortire le donne, un modo lo trova. Accade, è già accaduto, in Polonia e in Ungheria. È accaduto nel Stati Uniti. E queste realtà, oggi, sono sempre meno distanti da quella che potremmo vivere anche noi».
L’aborto è il più fragile dei diritti
Le leggi stabiliscono cosa è giusto e cosa non lo è. Il problema è quando questo discrimine avviene su base emotiva. A differenza di altri diritti fondamentali, la validità dell’aborto è oggetto di discussione in virtù di un’etica, una morale ed una spiritualità individuali: lo Stato che si confonde col sentimento, il diritto che si confonde con la morale.
«Il diritto all’aborto, e la sua fragilità, è strettamente connesso agli altri diritti civili e sociali. Ogni aspetto della nostra vita, dal decidere di far nascere o meno un figlio, alla scelta di come si vuole morire, è scandito dai diritti. E nessun diritto ha strada a sé, ogni diritto cammina con gli altri: descrivono il nostro spazio di libertà e di scelta. In questo senso la lotta deve essere unica, comune e intersezionale. Lo stiamo vedendo con le rivolte in Iran contro la Repubblica islamica. Si potrebbe pensare che le giovani donne siano le sole ad esserne interessate, e del resto ne sono protagoniste, ma al loro fianco ci sono anche uomini, persone anziane, ricchi e poveri: sono tasselli che insieme stanno facendo la rivoluzione. E quindi difendere e tutelare il diritto all’aborto significa difendere e tutelare la libertà di tutte e tutti».
L’aborto va difeso, perché l’aborto è un diritto fragile, il più fragile, lo è da sempre.
E potrebbe non esserlo più, perché la sua stessa idea è ogni giorno meno legittima nelle nostre menti.
E se viene meno un diritto, non più fondamentale, non più imprescindibile, potrebbero venir meno tutti gli altri.
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