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Il petrolio non è uguale in tutto il mondo.

Esistono vari prodotti che derivano dalla distillazione del petrolio grezzo. Il processo si chiama tecnicamente raffinazione e serve perché Il petrolio grezzo è una miscela complessa di centinaia di composti organici diversi, tra cui abbondano gli alcani, gli alcheni e gli idrocarburi (tra i quali gli aromatici). Il petrolio è prevalentemente composto da IDROCARBURI le cui molecole contengono atomi di carbonio e idrogeno, tuttavia essendo un fluido organico, appunto, che viene stratto dalla terra, non è uguale in ogni luogo del mondo: la sua composizione varia in base al giacimento. Per cui ci saranno fluidi petroliferi più pregiati di altri e quanto più la composizione è meno pregiata, tanto più la raffinazione costa e questo è un importante elemento di complessità nel quadro mondiale. Una delle caratteristiche fisico chimiche che differenzia le varie tipologie di petrolio sono gli API, una misura della densità considerata in base al peso relativo del greggio rispetto all’acqua, nonché la quantità di zolfo presente. Il petrolio più pregiato è il Wit (West Texas Intermediate), segue poi il Brent e Dubai/Oman. In realtà la composizione del petrolio è molto più complessa di così, ma per ragioni di standard o “panieri” i vari “blend” si inseriscono in queste tre categorie e ognuna di esse ha un mercato di riferimento preciso.

Accanto al “greggio” convenzionale, esistono gli shale oil, ossia gli olii di scisto e le sabbie bituminose, anche questi concorrono nel mercato, ma la loro estrazione viene fatta con tecniche complesse, costose e ancora più invasive come il fracking. Tuttavia esistono, vendono venduti e usati e sono un elemento di complessità aggiuntivo.

Quali sono i benchmark principali e come si vende il petrolio.

 Il Brent -anche se viene estratto principalmente nel Mare del Nord- è il prezzo di riferimento per circa due terzi del petrolio scambiato al mondo (ci mettiamo anche quello russo, qui) la contrattazione viene fatta ad Atlanta all’ICE;

 il WiT è il benchmark per i petroli Nord e Sud Americani ed è contrattato al NYMEX;

il Dubai/Oman è invece il benchmark del mercato asiatico ed è contrattato a Tokyo.

E l’Opec?  L’Opec è un cartello, riunisce 14 paesi membri, di cui 2 in Sud America, 6 in Medio Oriente e 7 in Africa, loro decidono prezzo e produzione, per questo hanno un’influenza enorme, anche perché da soli fanno l’80% delle riserve mondiali di petrolio il 50% delle riserve di gas naturale e forniscono circa il 42% della produzione mondiale di greggio e il 17% di quella di gas. L’appunto è che molti tra loro son diversamente democratici.

Come si compra il petrolio?

Il mercato del Barile è complesso. Il prezzo del petrolio è finanziarizzato e ha cominciato questo percorso negli anni ’70, ossia dalla crisi petrolifera.

Una volta si comprava ad un certo prezzo e arrivava in un tot di settimane. Ma da allora si è ritenuto più prudente, al fine di evitare problemi con le fluttuazioni del prezzo, inserire l’opzione dei future sul petrolio grezzo: comprare con un contratto future un tot di petrolio significa bloccarne il prezzo per mesi o anni, non è un prezzo di mercato, ma contrattato ovviamente.

E poi ci sono le Options, anche queste scommettono su un certo prezzo futuro del petrolio, ma a differenza dei contratti future, non è mica detto che si compri davvero la merce. Le opzioni sono contratti finanziari che danno il diritto, ma non l’obbligo, all’acquirente dietro il pagamento di un prezzo, di esercitare o meno la facoltà di acquistare (Call) o vendere (Put) una data quantità di una determinata attività finanziaria, a una determinata data di scadenza (o entro tale data) e a un determinato prezzo di esercizio (strike price).

La complessità del petrolio non si ferma al dove lo estraggo e come, va avanti considerando che tipo di petrolio è, dove lo vendo, come lo vendo, chi lo vende. È un sistema grande, intricato e soprattutto speculativo, il litro di benzina a €2 che ci fa piangere ad ogni rifornimento è davvero solo la punta dell’iceberg. Il problema grosso è che si tratta di una “commodities” che dire cruciale è dire poco la quale ha regolato e regola tutt’oggi decisioni di natura non solo economica, ma anche geopolitica.

Dal barile al potere.

Il prezzo del Barile è solo l’inizio, perché con il petrolio grezzo non ci si fa nulla: va raffinato e avere petrolio non significa -anche- raffinare petrolio. La combinazione delle due cose crea un enorme potere.

L’Opec nacque proprio con l’intenzione di contrastare lo strapotere di quelle che Enrico Mattei definì “Sette Sorelle”, ovvero sette compagnie petrolifere che dominarono con piglio colonialista il mercato petrolifero mondiale dalla fine degli anni 20 fino alla crisi petrolifera degli anni ’70. Erano (sono, anche se in forma differente)) davvero molto potenti, basti pensare che nel 1951 quando l’Iran decise di nazionalizzare l’industria petrolifera, cercando di estromettere gli inglesi, successe di tutto e probabilmente ne stiamo ancora pagando le conseguenze (clicca qui per saperne di più).

Oggi l’Iran fa parte dell’Opec e fu uno dei suoi paesi fondatori nel 1960. Analizzando la Storia lo sgambetto del 1951 venne reso indietro nel 1973, quando l’Opec decise di non vedere più petrolio agli stati occidentali come rappresaglia contro l’appoggio militare a Israele nel conflitto dello Yom Kippur. Quella decisione ha scatenato la crisi energetica di quegli anni e cambiato definitivamente il mercato del petrolio.

La questione petrolifera è da sempre una potente arma geopolitica: Opec e Opec Plus lo dimostrano. E ora vi chiederete che cos’è l’Opec Plus? In breve: un’alleanza allargata contro la possibile minaccia di un aumento di produzione negli Stati Uniti grazie all’estrazione degli shale oil (olio di scisto). In questa alleanza la Russia è entrata nel 2017 e ad oggi è, con L’Arabia Saudita, uno dei maggiori produttori.

In questo momento storico (Aprile ad 2021) la situazione è più o meno questa:

da una parte la Russia sta facendo la guerra all’Ucraina ed è bersaglio di sanzioni internazionali, ma pompa petrolio secondo le decisioni prese dall’Opec,

dall’altra l’Opec si deve riprendere dalla botta della pandemia che ha fatto crollare domanda e prezzi del petrolio, per cui dopo una ripresa a picco della produzione, aveva deciso di mantenere un numero di barili congruo per farci la “cresta”,

dall’altra ancora gli altri paesi estrattori non Opec non possono sopperire alla domanda generale e per cui i prezzi crescono.

Opec e Opec+ tengono insieme un gruppo di paesi difficilissimi che l’oro nero rende accettabili agli occhi occidentali; oltre a questo esistono paesi con una domanda enorme e compagnie petrolifere mostruosamente giganti, come la Cina, la quale compra il petrolio da Arabia Saudita, Iran e Russia (chi si piglia, si somiglia verrebbe da dire), ma pure ai Cinesi l’impennata dei costi energetici non piace affatto, per niente proprio (clicca qui per approfondire).

Il petrolio è un liquido vischioso che ha incollato tutti. Possiamo davvero liberarcene? Come direbbe Thanos: io sono ineluttabile. La risposta non è affatto semplice: i derivati del petrolio sono tanti e ne abbiamo bisogno per molti settori.

Una volta comprato, il petrolio si raffina e trasforma.

Se il mercato del petrolio grezzo è un puzzle globale connesso con…tutto, macro-economia e geopolitica in primis, la raffinazione ha una dimensione tendenzialmente più regionale, ma non per questo non senza effetti. Prima di tutto. Cosa si fa col petrolio? Le frazioni. Semilavorati che poi andranno ad alimentare altre industrie. Qual è la conseguenza del bruciare i lavorati che arrivano dalla raffinazione del petrolio? L’emissione di Co2 e non solo, nell’atmosfera. La raffinazione stessa comporta l’emissione di polveri e agenti tossici nell’aria, ma anche nella terra e nell’acqua e nonostante le disposizioni di adeguamento ambientale richieste -là dove è possibile farlo, dipende chiaramente dal Paese- le emissioni sono molto importanti (approfondisci qui).

processo di raffinazione petrolio
processo di raffinazione petrolio

La raffinazione avviene per combustione e le frazioni più basse generano output molto vischiosi e inquinanti. Cosa li usiamo a fare? Al di là di strade e isolanti vari per la costruzione, li si usa come carburante per le navi o per generare elettricità, peccato che l’olio combustibile denso sia il sottoprodotto più inquinante che esce dalle raffinerie e il suo utilizzo comporta alte emissioni di gas nocivi. Le stime globali indicano che le navi sono responsabili del 15% degli ossidi di azoto e dell’8% delle emissioni di zolfo e contribuiscono al 3% delle emissioni globali (approfondisci qui) . Le navi da trasporto e le navi da crociera appestano notevolmente le città portuali dove attraccano: Venezia e Civitavecchia hanno elevatissime concentrazioni di ossido di azoto e ossidi di zolfo…ossidi naturalmente contenuti nel carburante “sporco” che la nave usa per far andare i motori, motori che per altro non spegne del tutto in porto (scopri di più).

Ma sarà mai possibile far in modo che questi mostri marini inquinino meno? Sì, nel caso dalle crociere dipende se l’armatore ha voglia di munire la flotta di catalizzatori specifici o convertirsi a un carburante meno sporco come, ad esempio, il gas naturale liquido. Ma per le commerciali? Che oltretutto trasportano il petrolio stesso, oltre all’80% delle merci globali? Il discorso è complesso, la Eu ha fatto delle esplorazioni in merito (clicca qui) e alcuni ci stanno provano davvero (leggi questo articolo). Certamente “no nave, no petrolio” nelle raffinerie e probabilmente no petrolio nel mare a causa di qualche incidente: sapete che alcune petroliere rimangono tantissimo tempo in giro per i sette mari senza avere in acquirente? Le storture del mercato petrolifero e della speculazione. Un pericolo in più che aggiungiamo al paniere petrolio.

Produrre energia, la grande necessità.

L’olio combustibile lo si usa anche per generare elettricità, lo fanno le centrali termoelettriche che per la verità bruciano più volentieri gas, lignite o carbone, sempre rimanendo nei “fossili”. Produrre elettricità da una centrale termoelettrica è stata la scelta più ovvia nei decenni o secoli passati, le alternative non erano moltissime e nemmeno le tecnologie disponibili, ma la materia prima combustibile abbondava e lo era anche a KM0 (relativamente): pensiamo alla storia industriale europea del carbone.

Gli impianti termoelettrici a combustibile fossile, d’ora in poi li chiameremo così, hanno molti vantaggi: sono relativamente poco costosi da costruire – proprio per una scalabilità tecnologica ottenuta nel tempo-, sono stabili poiché basta aggiungere combustibile e funzionano, sono efficienti perché riescono quasi sempre a sopperire la domanda energetica per la quale son stati predisposti, però inquinano enormemente e lo fanno a livello sistemico nell’ambiente nel quale vengono costruite. Le implicazioni ambientali delle centrali termoelettriche sono note e altrettanto note anche le implicazioni sulla salute umana. L’Europa ha una strategia precisa per arrivare entro il 2050 a una progressiva decarbonizzazione, (leggi la roadmap 2050) e su questo punto torneremo più volte, tuttavia, come sottolinea un report McKinsey, la necessità elettrica europea tende ad aumentare progressivamente e crisi inaspettate, come la guerra in Ucraina, sparigliano completamente le carte in tavola per cui è sempre difficile fare delle proiezioni certe…su cosa? Sull’Energy mix del futuro. L’energy mix è quel paniere di vari elementi con i quali ogni paese ritiene opportuni per raggiungere livelli ottimali di richiesta energetica. Dentro ci sono tutti gli ingredienti che servono per generare energia: fossili, rinnovabili (o nucleari). Considerando il paniere fossile e rinnovabili nel 2019-2020 la situazione europea era questa:

situazione europea fonti energetiche
situazione europea fonti energetiche

Mentre per capire quanti Power Plant esistono al mondo e con cosa funzionano esiste una cartina interattiva: clicca qui.

A giugno 2021, esistono 9.511 centrali elettriche che operano in Europa, di queste 2500 sono alimentate da energia solare (29,6 per cento), seguite da centrali a turbine eoliche (23,9 per cento) e idroelettriche (21,4 per cento). Poco meno di 1.500 centrali elettriche funzionano con fonti non rinnovabili: il carbone, il gas, il petrolio e il nucleare rappresentano rispettivamente il 4%, l’8%, l’1% e lo 0,8% del numero totale di centrali elettriche europee.

Il cammino è certamente positivo MA rimane sempre che circa il 40% dell’energia elettrica che consumiamo, la producono i combustibili fossili. Soprattutto i grafici fino ad ora visti sono una media europea, alcuni paesi sono più dipendenti dai fossili, altri no.

produzione europea energia in funzione della risorsa

(Qui trovi la fonte completa) Quando si parla di combustibili fossili per creare elettricità e/o energia nelle sue varie forme intendiamo, come scritto più sopra, diverse fonti. Nella chart qua sotto per Other si intendono le biomasse.

E dai dati, visibilmente, si nota come il Gas naturale la faccia da padrone, anche se il carbone è ancora presente in svariati stati europei. Ma perché il gas è così utilizzato negli impianti termoelettrici? Perché tra tutti è la soluzione transitoria per la transizione green.

produzione europea energia in funzione della risorsa
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