Così è finita la vita di Cloe Bianco.
Di Francesco Codagnone.
Così è finita la vita di Cloe Bianco, donna transgender di 58 anni, ex insegnante, che sabato 11 Giugno è stata trovata senza vita nel suo camper vicino Belluno. Questo è quello che è successo, e questi sono i fatti. Ma è solo parte della verità. La verità completa – l’altra verità – è che Cloe Bianco è stata uccisa – uccisa dall’odio, dal pregiudizio, da un Paese che l’ha resa, e fatta sentire, invisibile. Invisibile, difficile da vedere se non da morta – e per questo è morta.
In questi mesi mi è spesso capitato di assistere a discussioni oscene sulla pelle della comunità transgender: uomini travestiti da donne, donne travestite da uomini, difettose derive della teoria di genere, usurpatori del genere femminile (mai però usurpatrici del genere maschile), persone confuse, disturbate, traumatizzate, perverse, irrisolte, pericolose. Persone brutte, bruttissime, che vorremo tanto non vedere – non sappiamo come comportarci, possiamo tollerarle solo se non sappiamo cosa sono in realtà, distogliamo lo sguardo. E a furia di distogliere lo sguardo, di lasciare queste persone da sole, alla periferia sociale, sommesse, in silenzio, invisibili, a furia di volerle morte capita che poi una ne muore davvero – anzi tre.
Camilla Bertolotti, donna transgender, parrucchiera e sex worker. Uccisa la notte di domenica 5 Giugno nei pressi di Sarzana, due colpi di pistola alla testa. Sasha, ragazzo transgender di 15 anni, il 9 Giugno si è lanciato nel vuoto, dal sesto piano della sua casa a Catania. Infine Cloe Bianco, il cui pensiero non mi da ormai più pace, privata del lavoro e della dignità – la lettera d’addio nel suo blog, poi la libera morte l’11 Giugno.
La storia di Camilla è famigliare, l’abbiamo già sentita, mette radici nelle fondamenta della nostra società. Il suo presunto assassino, Daniele Bedini, 32 anni, falegname di Carrara, si trova attualmente sotto custodia cautelare per l’omicidio, oltre che di Camilla, anche di Nevila Pjetri, sex worker albanese di 25 anni. La loro è la storia più antica del mondo: prede e cacciatori, angeli e minotauri. È la storia delle donne che non sono più donne ma i corpi che abitano, corpi esposti, corpi da possedere e controllare; la storia delle donne che nella strada cercano salvezza e ottengono dannazione. L’odio degli uomini – ma anche la loro frustrazione, la loro perversione, il loro eros represso – sfogato sulle persone più indifese: donne, prostitute, emarginate – una straniera, una transgender. Quelli di Camilla e Nevila sono i primi due femminicidi di un mese di Giugno destinato ad essere una marcia di sangue, un corpo di donna ogni due giorni.
I suicidi di Sasha e Cloe arrivano vicinissimi, entrano in risonanza. Morti preannunciate, ce le aspettavamo. Ricordate i boati in Senato, i cori da stadio, quando il ddl Zan venne bloccato? Ricordate quando l’ex premier Matteo Renzi con il suo partito si oppose all’inserimento di quelle che lui chiamava “teorie gender” nel nostro sistema legislativo attraverso lo stesso ddl Zan? Ricordate i tweet violenti – “giù le mani dai bambini!”, ma anche Sasha era un bambino – del senatore della Lega Simone Pillon? Ricordate le urla di Giorgia Meloni, che durante un evento di Vox si è scagliata duramente contro la fantomatica “lobby LGBTQ+” che metterebbe in pericolo “la famiglia naturale”? Ricordate la campagna mediatica di Elena Donazzan, assessora sotto la giunta di Luca Zaia, campagna mediatica contro Cloe Bianco che portò al suo inevitabile licenziamento?
Ecco, ricordate tutto questo? La nostra indignazione, la nostra rabbia? I morti profetizzati? Qui finirà male – e male è finita.
Il primo a scegliere la morte è Sasha. Sasha aveva 15 anni. Ripenso a quando io avevo 15 anni, a quel ragazzo – che ero io – timido e silenzioso, pensieroso e spaventato. Ripenso a quel ragazzo di 15 anni che non riusciva a immaginare il suo futuro – un anno o due da oggi, ma non di più, non diventerò mai grande – perché un futuro non c’è, non esiste futuro se sei destinato all’emarginazione, all’invisibilità, alla disparità. Se a 15 anni sei un ragazzo non conforme, un futuro non esiste, esiste solo il vuoto a sostenerti – e non esiste regola per salvarsi da quel vuoto, perché ogni parola, ogni gesto ha un eco enorme, diventa sentenza: io è capitato mi salvassi, Sasha è capitato non si salvasse, e dunque ha abbracciato il vuoto, lanciandosi in esso.
Il suicidio di Cloe è stato invece un atto accarezzato nel tempo, curato nei dettagli durante la sua lunga solitudine – imposta o autoimposta? – una morte durata sette anni, che ha inizio nel 2015, quando per la prima volta si entra nell’aula dove insegnava, con abiti femminili, e per la prima volta si presenta per la donna che era, è realmente. Nei sette anni che seguono, Cloe è stata prima sospesa e poi allontanata definitivamente dall’insegnamento. Il lavoro di una vita, la sua passione, frutto di studi e sacrifici, negatole perché se stessa. Infine, la scelta di togliersi la vita: come scrive nel suo blog, dopo aver festeggiato, mangiato, bevuto, ascoltato musica, Cloe ha scelto la libera morte, nel camper che ormai era la sua casa – “così termina tutto ciò che mi riguarda”. Per giorni ho continuato a chiedermi: come si sarà sentita quel giorno, prima della libera morte? E i giorni prima, nelle sue ultime danze? E in quegli anni di esilio, di solitudine?
Possiamo immaginare, ma in realtà capire i sentimenti dell’altra persona è difficile, nel caso del suicidio è impossibile, ci costringe al limite della nostra empatia. Ciò che conta sono i fatti. Sasha aveva 15 anni, si è lanciato dal sesto piano nel vuoto. Cloe aveva perso il lavoro, emarginata, sola, relegata in un camper, si è data fuoco – ha dato fuoco a lei e tutto ciò che possedeva, “così termina tutto ciò che mi riguarda”. Questi sono i fatti. I fatti sono che due persone transgender si sono ammazzate, una è stata uccisa. Una parrucchiera e sex worker, la sua morte non ci scuote particolarmente, giusto un solletico al nostro senso di decoro e pudore – “del resto aveva fatto le sue scelte…”. Un ragazzo minorenne, della sua storia non sapremo altro, la dimenticheremo presto. Un’ insegnante, con le sue pretese d’espressione, fenomeno circense che entrò in classe con minigonna e unghie laccate. Questi sono i fatti. E poi ci sono gli altri fatti.
La verità, l’altra verità, è Cloe Bianco è stata uccisa, che Sasha è stato ucciso, che Camilla è stata uccisa (lei, due volte).
Cloe, Sasha, Camilla sono vittime di un paese che ha scelto la strada dell’omotransfobia affossando il dll Zan e consentendo alla nostra classe politica, intellettuale e imprenditoriale di esprimersi con termini apertamente misogini e omotransfobici senza alcuna conseguenza, perché ormai l’odio è parte integrante del loro – del nostro – lessico, e a volte dimentichiamo di indignarci. Vittime – una, due, tre volte – dei mass media, che all’indomani delle loro morti hanno riportato le notizie tra misgendering e deadnaming, privando queste persone della dignità e dell’identità anche in morte. La verità, l’altra verità, è che all’indomani delle sfilate, marce, manifestazioni per chiedere giustizia – per Camilla, per Sasha, soprattutto per Cloe, vittima di un errore giudiziario che ha permesso il suo licenziamento – all’indomani del mese dedicato al Pride, l’Italia sarà ancora il Paese in cui una persona transgender è costretta a lavorare (se può), uscire di casa, affittare un appartamento, viaggiare, vivere con un documento su cui è riportato un nome diverso da quello con cui è conosciuta. L’Italia sarà ancora il Paese in cui il percorso di transizione medico, psicologico e giuridico per una persona trans è lungo e costoso, fatto di continui controlli per essere sicuri che si stia facendo la “scelta giusta”. Domani l’Italia sarà ancora il Paese in cui è possibile umiliare pubblicamente una persona trans, mettere in discussione la sua professionalità e preparazione, chiamarla con i pronomi sbagliati e con il nome che non la rappresenta più (che mai l’ha rappresentata). Il Paese in cui alla comunità LGBTQ è negato il diritto all’autodeterminazione, all’affettività, alla genitorialità, alla socialità, spesso al lavoro, alla sicurezza, all’assistenza, all’individualità, alla dignità. Alla libera vita – ma non alla libera morte.
Le storie di Cloe, Sasha, Camilla sono solo altre storie di persone invisibili, testimonianze di una politica che rende impossibile, per la comunità LGBTQ+ e in questo caso per le persone transgender, vivere la propria vita con dignità, pienezza di diritto e libertà.
Le loro storie devono essere anche le nostre storie, dobbiamo raccontarle – con rabbia, dolore, il cuore a pezzi, la gola in fiamme – e non dimenticarle mai. Sono già le nostre storie. Perché la verità è che Cloe, Sasha, Camilla erano persone normali – persone coraggiose, che hanno intrapreso il loro percorso di transizione in una società che le ha trattatə con quell’assenza di pietà che riserviamo alle persone brutte e alle persone trans. Alle persone invisibili. Alle persone che non vorremmo vedere, se non da morte. E per questo sono mortə.
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