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Carlotta è solo una “Storia di Decoro” (e precarietà non si dice).

Di Enrico Bruni

Alcuni giornali stanno rilanciando da giorni la storia di Carlotta, studentessa laureatasi con un anno di anticipo al San Raffaele. Non è il primo, ma soltanto l’ultimo di una sequela di articoli in cui si celebrano ragazzi con tre lauree a 23 anni, innalzati a modelli di vita da emulare per non finire come “gli altri”, tutti quei ragazzi e ragazze che, a detta del narratore e spesso dell’intervistato, avrebbero scelto di non avere successo.

Fatichiamo a trovare articoli approfonditi su quanto siano aumentati gli affitti per una singola nelle città in cui vorremmo andare a studiare, eppure i media italiani trovano interessanti storie di questo tipo. Così, spuntano qua e là sempre di più queste narrazioni delle eccellenze. Ragazzi e ragazze che si vantano di rifiutare il sonno per la carriera, di non aver mai perso tempo, di non essere come gli altri.

Ammettiamo per un secondo che la meritocrazia sia un’isola e non sia influenzata da niente. Bene, i migliori vanno avanti, ma tutti gli altri? Per uno che ce l’ha fatta, quanti altri in questo momento stanno soffrendo a causa di problemi economici, una pandemia che ci ha devastati, spesso in situazioni familiari di cui nessuno è a conoscenza, avendo avuto sulla propria strada incidenti di percorso che gli fanno credere ogni giorno di aver fallito?

Quand’è che abbiamo deciso che raccontare l’1% fosse ciò di cui avevamo bisogno, di fronte a un 99% che nel totale disinteresse sta lottando per il solo accesso a quella competizione che il sistema meritocratico-capitalista richiede.

Non solo i giornali: vengono organizzati eventi dedicati alla nostra generazione in cui le parole ‘precariato’ e ‘incertezza’ non vengono mai citate. Parlano/iamo della nostra generazione come di persone che hanno come unica possibilità quella di riscattarsi da soli. Così vengono lodate le bellissime storie di chi ce l’ha fatta ‘da solo’, grazie alla propria forza di volontà e all’essere ben disposti, come se di fronte a un’ingiustizia non ci fosse neanche concesso quel momento in cui dire “però che cazzo!”. La protesta non è contemplata, la lotta è roba “da comunisti”. Nessuno che citi alcuna dimensione collettiva, qui nessuno ha responsabilità di ciò che stiamo vivendo, ‘se vuoi puoi’ e sennò son cazzi tuoi.

Una compagna, Eleonora Baldi, ha parlato di queste narrazioni come di “storie di Decoro“:

diventa la cosa più bella/accattivante raccontare esempi come quello di Carlotta in quanto sono storie di Decoro, sono cioè le narrazioni che rispondono maggiormente a ciò che il senso borghese ama leggere e divulgare. Così, il Decoro diventa la risposta alla domanda del gusto borghese, declinandolo in tutti gli aspetti della vita comunitaria: dall’aiuola col prato ben curato alla storia di una vincente, dall’evento particolarmente instagrammabile alla città “da bere”. Ciò che appare davvero inquietante è quanto ancora oggi come negli anni 70 siano attuali le accuse che Pier Paolo Pasolini rivolgeva a Italo Calvino e alla maggioranza dei media italiani nel suo articolo “Tu dici”: queste storie interessano in quanto parlano di un caso che riguarda la società borghese, la vera vincitrice dell’egemonia culturale. La storia del privilegiato è come quella aiuola ben curata che ti aspetti di vedere in una città ben amministrata in quanto assurge a unico modello valoriale che spazza via tutto il resto, in quanto solo obbiettivo di riferimento a cui ambire tutti, ricchi e poveri.

Fortunato quel popolo che non ha bisogno di eroi, direbbe qualcuno, eppure le “narrazioni di decoro” rispondono proprio a questa esigenza. Siamo talmente persi che chi detiene il megafono pensa che il nostro desiderio sia quello di avere risposte rassicuranti a problemi che nel frattempo non vengono in alcun modo risolti. Siamo tante e tanti, diversi da storie come quella di Carlotta. Parlare della nostra generazione vuol dire parlare della generazione più precaria della storia di questo paese, vuol dire parlare di ragazzi e ragazze che ogni giorno convivono con la consapevolezza di non avere diritto a mettere radici in quanto potrebbero essere costretti in qualsiasi momento a spostarsi per trovare un lavoro dignitoso. Ci hanno cresciuti dapprima col mito della mobilità: vinci se sei disposto a non mettere radici. Oggi stanno modificando quella narrazione in un “vinci se non dormi la notte” oppure “vinci se sei l’eccezione“.

Probabilmente se dovessero parlare di noi parlerebbero come di “un’armata Brancaleone”, una serie di persone incasinate, con situazioni di cui il resto del mondo ignora la reale portata. Sarà che ne faccio parte, eppure vorrei che più che di un’armata Brancaleone, parlassero di una Compagnia dell’Anello: persone ancora alla ricerca di se stessi, con routine spezzate da lavori precari, problemi familiari e attacchi di panico. Spesso ci sentiamo soffocati dall’incertezza ed è giusto non vergognarsi di queste sensazioni solo perché non rispondono al senso di decoro borghese. Alle volte ce la facciamo, altre no ed è giusto non disconoscere né l’una né l’altra di queste condizioni.

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